L'AMORE MALATO: la dipendenza affettiva

 

Si parla spesso di dipendenza affettiva ma sappiamo in realtà di cosa si tratta? Molte persone purtroppo cadono in questa trappola senza rendersene conto, sono talmente accecate da percepire la realtà in modo distorto. È bene quindi fare chiarezza sui sintomi e soprattutto sulla cause di questo disagio che sempre più di frequente si manifesta all'interno della coppia.

 

L'amore malato: la dipendenza affettiva

 

 

La dipendenza affettiva è uno stato psicologico nel quale la persona

vive l’amore per l’altro come condizione primaria e indispensabile per sopravvivere. Si nutre di questo sentimento come fosse una linfa vitale in quanto senza di esso soccomberebbe.

Chi vive questo tipo di sentimento annulla se stesso per l’altra persona, non riconosce i propri valori, la propria unicità, non si ascolta perché esiste solo l’altro e il suo benessere anche a costo di farsi schiacciare. Queste persone vivono la relazione come una sorta di simbiosi ove vivono solo per l’amato. Non si impongono in alcun modo per la paura della perdita che non sarebbero in grado di affrontare e superare.

 

 

 

 

I sintomi della dipendenza affettiva sono i seguenti:

- Paura intensa dell’abbandono e della separazione dalla persona amata;

- Scarsa autostima e fiducia nelle proprie capacità;

- Terrore della perdita;

- Sottomissione;

- Eccessiva gelosia;

- Tendenza ad isolarsi a livello socio relazionale;

- Incapacità di restare da soli;

- Totale assenza di margini col partner, la relazione è caratterizzata da una simbiosi che non considera la persona nella sua unicità;

- Timore di prendere iniziative o farsi rispettare;

- Sensi di colpa e irritabilità.

 

Chi è la vittima? chi il "carnefice"? Quali sono le dinamiche?

 

Possono scegliere questo tipo di relazione persone vulnerabili che non riescono a stare senza un partner e ricercano morbosamente una relazione per poter sanare altri vuoti affettivi. Nella maggioranza dei casi il partner è una persona molto forte, sicura di sé, abile manipolatore in grado sin da subito di tirare le redini del gioco. La dipendente affettiva vede questo atteggiamento dell’uomo come un porto sicuro che la tutela e la protegge, dal canto suo l’uomo capta la vittima come fosse una preda premendo i punti giusti per avere la sua

totale sottomissione. Saprà mano a mano trovare la “zona di vulnerabilità” per poterla controllare e manovrare in funzione della sue necessità. La vittima si lascerà sempre più trascinare dalla relazione finendo per perdere la sua identità.

 

Si viene quindi a creare una situazione di incastro perfetto in quanto non esiste vittima senza un “carnefice” e viceversa. Il partner della donna “vittima” tenderà inoltre a mettere in risalto le debolezze (fisiche, psicologiche, caratteriali ecc) della compagna facendo un continuo confronto con un altro “ipotetico” che sarà sempre migliore di lei. Questo atteggiamento, che rientra nella violenza psicologica, porta la donna a sgretolare sempre più la sua già debole autostima alimentando una profonda insicurezza che la porterà a sviluppare forme morbose di attaccamento e gelosia legate alla paura della perdita sentendosi inadeguata “sicuramente sceglierà qualcuna migliore di me”.

Si crea così una sorta di ciclo della violenza più o meno subdolo costantemente alimentato da due motori principali: il controllo del partner dominante e l’ansia della “vittima”.

 

Quali possibili origini? Che cosa alimenta il ciclo della violenza?

 

Le radici di questo disturbo risiedono spesso in un rifiuto subito da una figura di riferimento in età infantile / adolescenziale, la persona

dipendente in età adulta cerca di riscattarsi da questo fallimento relazionale attraverso un partner che le dia la sicurezza e l’ancoraggio affettivo che le sono venuti a mancare. Idealizza il partner e si nutre di questa nuova forma di “rifiuto” fondato sulla svalutazione e sull'umiliazione.

Alcune di queste donne vivono la relazione impregnata dal desiderio di cambiare l’altro, di poterlo in qualche modo salvare e convincerlo del loro valore nell'illusione di riuscire a farsi amare da chi in realtà ama solo se stesso. Vivono nei sensi di colpa percependosi sempre inadeguate “lui si comporta così perché in realtà sono stata io a farlo arrabbiare”, “se fossi meno gelosa tutto questo non accadrebbe”. Paradossalmente il costante rifiuto genera tensione che non annoia queste persone nella relazione ma al contrario le motiva ulteriormente alla loro “missione”. Tali convinzioni finiscono per alimentare questo disturbo creando un circolo vizioso dal quale è poi sempre più difficile prendere le distanze.

 

Spesso nel centro antiviolenza per il quale lavoro da diversi anni ho avuto a che fare con donne assolutamente inconsapevoli del male che stavano vivendo col loro partner che, armate di forza di volontà e caparbietà, hanno deciso (anche dopo molti anni) di riprendere in mano la loro vita ricostruendo pezzo per pezzo tutto ciò che era andato perso all'interno della relazione malata. Le ho aiutate a rivedere più criticamente alcune loro convinzioni errate alla luce della situazione che avevano vissuto, le ho accompagnate nel “riconoscimento”

della violenza e quindi verso il cambiamento.

Amare se stessi è il primo passo per uscire da queste trappole affettive e un professionista può essere di grande aiuto per mettere luce in questo tunnel oscuro. Per qualunque cose potete scrivermi nella sezione CONTATTI. Grazie e alla prossima!

 

Dott.ssa Federica Gradante

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